TURANDOT, LETTURA REGISTICA SINGOLARE Teatro Regio di Parma

Turandot di G. Puccini è il vero titolo della stagione lirica 2020 al Regio di Parma che presenta un allestimento creato nel 2003 a Modena, e poi ripreso altre volte fino ad oggi, in cui il regista Giuseppe Frigeni offre una lettura diversa da quella proposta da Puccini, e prima ancora dalla fiaba di Carlo Gozzi, che non ci presenta un Calaf innamorato della principessa Turandot, ma un uomo avido solo di potere per cui Turandot diventa solo lo strumento delle sue ambizioni. Calaf non rischia la vita per amore, dunque, e Turandot viene uguagliata a Liù: due donne tradite ed ingannate. Che Puccini ne sia felice, oppure no, non lo sapremo mai. Certo è che la visione di Frigeni è più Verdiana che Pucciniana.

La scena, essenziale e spoglia, per nulla ricorda la tradizione cinese e la “città proibita”, anzi, è fuori dal tempo e ben si adatta a tutte le epoche e tutti i luoghi, lo spettatore non vive qui la caratteristica principale di quest’opera, e cioè l’antica dinastia degli imperatori Ming e Qing che ha ispirato la leggenda. Scena teatralmente efficace e suggestiva ma non funzionale alla narrazione dell’opera secondo il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, giocata su simbolismi piuttosto che azioni sceniche, che conferiscono indubbia eleganza teatrale ma che troppo spesso stridono con il racconto, sia per la visione del tutto personale del regista e sia per la storia vera e propria che emerge dal “recitar cantando” di una delle opere più amate del genio Pucciniano che qui diventa capolavoro e apre alla musica del Novecento.

L’allestimento, che si compone di una struttura a gradoni ed un fondale, entrambi neri e funerei, ed entrambi elettronicamente mobili, costringe il coro ai lati in modo statico, focalizzando l’attenzione solo sul canto che, come sempre, è impeccabile. Il coro del Regio, ben preparato dal Maestro Martino Faggiani, ha riscosso il successo maggiore ed applausi meritati dall’intera platea.

Nella recita del secondo cast troviamo France Dariz, nel ruolo della principessa Turandot, con doti vocali discrete ma affaticata in una partitura troppo impervia per lei, non vi è uno studio del personaggio, né per presenza né per movenza scenica; Samuele Simoncini, nel ruolo di Calaf, è stato vocalmente all’altezza per voce squillante ma non valorizzato dal costume; Marta Torbidoni, nel ruolo di Liù, è stata vocalmente efficace per dolce fraseggio; bravi anche Paolo Antonietti (Altoum), Fabio Previati (Ping), Roberto Covatta (Pang), Matteo Mezzaro (Pong) e Benjamin Cho (Mandarino); in special modo i tre ministri hanno saputo essere efficaci anche dal punto di vista scenico muovendosi con grande naturalezza durante il canto senza perdere la precisione in una partitura difficoltosa per i tre personaggi pucciniani. Nobile il Timur di George Andguladze, anche se tenuto sempre ai margini della scena e mai accompagnato da Liù.  

Buona la direzione di Valerio Galli, che ha diretto la Filarmonica dell’Opera Italiana Bruno Bartoletti, e che ha meritato applausi da tutto il pubblico, così come il piccolo coro di voci bianche Ars Canto G. Verdi diretto da Eugenio Maria Degiacomi. I costumi di Amélie Haas decisamente mediocri.

La freddezza volutamente ricercata, sia nell’espressione vocale e sia nell’allestimento, non ha consentito forse la coesione del cast, ma nel complesso un buon cast (secondo cast, recita dell’ 11 gennaio). Ciò che potrei consigliare ai giovani cantanti che ci seguono in OperaHelp, è che devono andare a teatro ad assistere alle rappresentazioni liriche live, nel bene e nel male, studiare il personaggio prima di interpretarlo e domandarsi sempre il significato di una determinata scelta e movenza, chiedere sempre al regista di motivare le sue scelte, leggere il libretto e non solo eseguire la partitura musicale affinché si possa capire il significato di ciò che si sta cantando e soprattutto come il compositore ha inteso questo e quel personaggio.